
Nella notte del 20 settembre 1956 una carica di dinamite fece saltare in aria un traliccio dell’energia elettrica nei pressi di Siebeneich (Settequerce), piccolo paese immerso tra frutteti e vigneti poco distante da Bolzano: fu l’esordio di un periodo molto travagliato che sarebbe durato all’incirca una trentina d’anni prima di dirsi definitivamente concluso. Una minoranza nazionalista – ma all’interno della quale si sarebbe manifestata poi apertamente anche un’attiva presenza neonazista –, tentava di staccare dall’Italia la provincia di Bolzano con strumenti di lotta violenti e a volte con una vera e propria guerriglia; Georg Klotz, uno dei più noti militanti, disse che il modello ispiratore era stato quello della guerra di Algeria che infatti si stava combattendo negli stessi anni.
I responsabili della prima ondata di attentati furono arrestati e processati già nel dicembre 1957, ma non era finita. Nella notte tra il 10 e l’11 giugno 1961, ci furono ben quarantasette attentati esplosivi, uno dei quali provocò una vittima. A luglio altri attentati colpirono linee elettriche nel Veneto e in Lombardia e la reazione non si fece attendere: Bolzano e provincia furono praticamente militarizzate, affluirono rinforzi militari e la frontiera, da dove si temeva l’ingresso dei terroristi, fu sottoposta a stretta sorveglianza. Amintore Fanfani, presidente del consiglio, non esitò – su proposta di Mario Scelba, ministro degli interni –, a proclamare il coprifuoco e a rendere obbligatorio il visto di ingresso in Italia. Non ci si limitò solo ai controlli ai valichi, ma – anche dove il confine correva lungo una cresta montana ad alta quota – si attivarono distaccamenti a pattugliare la frontiera.
Maturata la convinzione che l’Austria fosse la base logistica dei terroristi, al Brennero tutti i vagoni erano ispezionati con cura; il controllo dei passaporti in treno avveniva con rigore e spesso i passeggeri notavano che gli addetti, assieme ai passaporti, consultavano una pubblicazione con foto e nomi di ricercati ed indesiderabili. Era successo nell’aprile 1959 che Viktoria Stadlmayer, austriaca e funzionaria del governo regionale tirolese (in gioventù appartenente al Bund Deutscher Mädel, la Hitler Jugend femminile), fosse arrestata al Brennero mentre entrava in Italia, trattenuta e rilasciata. Il massimo della tensione si raggiunse tra il 1965 e il 1966: stragi, attentati eccidi che culminarono con la morte di quattro finanzieri a Malga Sasso in settembre. Altri attentati seguirono nel 1967, ma ormai erano stati effettuati un centinaio di arresti cui seguirono processi con pesanti condanne.
La soluzione fu politica: Aldo Moro e Kurt Waldheim (il cui passato non proprio cristallino era ancora del tutto ignorato) si incontrarono nel 1968 e fu elaborato un sistema di concessioni e autonomie per la popolazione di lingua tedesca. L’altra metà della stessa soluzione fu anche giudiziaria, perché molti arrestati collaborarono e la rete fu smantellata: critiche giunsero però sui metodi attraverso i quali si era ottenuto il convincimento. Sebbene si discuta ancora oggi sulle cause e sulla regia (probabilmente occulta) di questa dolorosa stagione di bombe e attentati, negli ultimi anni il valico del Brennero – epicentro e punto focale in tutte queste vicende tutt’altro che pacifiche e non ancora del tutto chiarite – era diventato intanto la frontiera più aperta d’Europa. Fino a ieri.