
La debolezza congenita dei capi. Difficile trasferire saperi manageriali e farli diventare competenze politiche: chi ci ha provato, in genere, ha finito col dare pessime prove di sé.
Nessuna garanzia che un buon manager riesca a trasformarsi in un politico all’altezza (posto che ce ne sia oggi qualcuno) né che un politico nostrano pensi di imparare qualcosa di serio da un mondo che non gli appartiene.
Eppure mi sembra, guardando a quello che sta succedendo intorno, che qualche evidenza sperimentata nelle imprese riesca a dire qualcosa di quello che sta succedendo alla nostra classe politica.
Due indicazioni, in particolare, entrambe legate a condizioni di debolezza congenita dei capi.
La prima è legata all’emergere di guru estemporanei che, con provenienze confuse e culture ancor meno classificabili, finiscono per scambiare previsioni da trasmettere con personali elucubrazioni apocalittiche, spacciate da strategie salvifiche.
Il peggio è che il para-gurismo crea discendenza e tende a incistarsi endemico nelle organizzazioni, prosperando su culture di governo più approssimative di un tempo.
Il para-guru si presenta chiedendo, si insedia consigliando e cresce convocando.
La seconda evidenza rimanda alla propensione, irresistibile nei capi, a circondarsi di collaboratori non conflittuali e, anzi, possibilmente succubi e servili.
Senza arrivare al ridicolo del “Ciaone”, espressione di chi ha navigato a pelo cogliendo tutte le onde, la tentazione dei capi a fare in proprio anche quello che sarebbe facilmente delegabile, alleva nel tempo cloni aspirazionali sempre più degradati, e una fauna indistinta e omologata, tanto da essere facilmente scambiabile sul mercato delle comodities.
Che fare?
Almeno indignarsi, se proprio non si vuole perdere di dignità personale.
Non è gran che ma, se si ha pazienza, si arriverà anche a vedere il momento di arrivo di certe debacle con contorno di ridicolo.