
Nessuna sorpresa, dunque. New York ha votato come si prevedeva regalando grandi vittorie nelle ultime primarie a Hillary Clinton e a Donald Trump. D’altra parte quest’ultimo è di casa essendo nato in città, nel sobborgo di Queens 69 (70 a giugno) anni fa. Ma assai popolare in loco è pure la ex Segretario di Stato che proprio qui ha una delle sue roccaforti elettorali.
Chi si attendeva che lo “Empire State” rovesciasse l’andamento finora prevalente facendo vincere Bernie Sanders da un lato, e Ted Cruz o un altro candidato repubblicano dall’altro, è rimasto deluso. Troppo forte l’insediamento elettorale della ex First Lady che in questo territorio ha sempre lavorato molto. E forte anche quello del tycoon che, pur non avendo alle spalle esperienze politiche, è pur sempre un newyorkese a tutto tondo.
Sarebbe tuttavia un errore prevedere che a questo punto i giochi siano chiusi definitivamente, soprattutto per quanto riguarda Trump. E c’è pure una notevole differenza tra gli appoggi su cui i due possono contare.
L’apparato democratico è in larghissima misura schierato con la Clinton, alla quale non ha mai fatto mancare il sostegno. Si è battuto per lei, tra l’altro, pure il sindaco di origini italiane Bill de Blasio che nella metropoli conta molto. Inoltre si è avuta la conferma che neri e ispanici – nella stragrande maggioranza – continuano a votarla (anche se, detto con franchezza, non è facile capire perché).
Sanders ha ottenuto un buon risultato ma resta comunque un outsider coraggioso che si batte senza esclusione di colpi. Il suo vero bacino elettorale è formato dalle nuove generazioni che votano massicciamente per questo senatore che in settembre avrà 75 anni.
La rottamazione di stile renziano sembra avere ben poca presa in America visto che, con l’eccezione del 45enne Cruz, tutti gli altri candidati sono alle soglie dei settant’anni o li hanno già superati. Il mito del giovanilismo, per fortuna, negli States non ha attecchito. Forse anche perché il giovane Obama ha fornito prove tutt’altro che convincenti.
L’ostilità dell’establishment repubblicano nei confronti di Donad Trump è notissima e i maggiorenti del partito stanno facendo di tutto e di più per far deragliare la sua candidatura. Hanno però un grosso problema, poiché neppure Cruz, giudicato troppo a destra su moltissimi temi, gode del loro favore.
Possono solo sperare che il tycoon non raggiunga la maggioranza automatica dei delegati nella convention finale per tirar fuori un altro nome come il coniglio dal cilindro. Operazione comunque pericolosa: agli americani piace l’investitura popolare diretta e tendono a snobbare i prescelti da apparati ristretti.
Se ora diamo un’occhiata ai delegati già assegnati è facile capire che Clinton è messa meglio di Trump. Le mancano solo 472 voti per ottenere la candidatura e può ottenerli grazie ai numerosi e importanti appoggi di cui gode e già menzionati in precedenza. L’unico fattore in grado di “affondarla” è qualche scandalo, per esempio il riaffiorare della vicenda del suo uso privato di email secretate.
Più complicato il percorso del tycoon, il quale per ottenere la nomination deve conquistare ancora 392 delegati. In questo caso, però, Cruz lo tallona abbastanza da vicino, mentre in campo democratico è più ampio lo scarto tra Clinton e Sanders.
Insomma, a dispetto delle apparenze, i giochi non sono affatto chiusi, e queste primarie Usa sono probabilmente le più interessanti tra quelle svoltesi negli ultimi decenni. Anche se non piace ai fautori della stabilità, hanno infatti portato alla ribalta personaggi nuovi, fatto di cui il vincitore delle elezioni vere – non delle primarie – dovrà tener conto, e che è destinato ad avere un peso sul futuro della nazione.