L’ambivalenza dell’amicizia, sentimento o clientela

Avere degli amici nella vita di ogni giorno è spesso una polizza per la tranquillità della propria esistenza e spesso anche una benedizione.

Accompagnano la nostra quotidianità senza pretesa, sanno come siamo fatti e disponibili a comprendere pregi e difetti, con la tranquillità di non aspettarsi necessariamente vantaggi personali.

L’amicizia, in questo senso, è un valore che rassicura e permette di avere punti di riferimento emotivamente rassicuranti.

 

Altro scenario è quello che fa riferimento al mondo del lavoro.

Avere o cercare amici in ambito professionale (impresa, politica non fa differenza) non è di per sé un disvalore, ma non è una condizione necessaria per fare meglio il proprio mestiere.

Spesso, anzi, complica la vita e l’immagine, mescolando relazioni personali con ruoli formali (o istituzionali) che dovrebbero avere tutt’altri presupposti.

 

Cedere al richiamo dell’amicizia, (ancorché di qualità), ipotizzando che la consuetudine garantisca anche una maggiore affidabilità, si rivela spesso un calcolo miope, quando non in cattiva fede.

Il richiamo dei sentimenti può facilmente diventare un ricatto, con il corollario di cedimenti per bypassare le buone regole e prestare il fianco a più di un pregiudizio non benevolo.

 

“Distingue frequenter” dovrebbe essere un principio saggio per non mescolare piani diversi e affidamenti che possono complicare vita e lavoro.

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