Dilemmi cinesi tra economia e sistema politico

Che l’economia cinese stia attraversando un periodo a dir poco difficile è cosa nota, e i media internazionali se ne occupano ormai a tempo pieno. Anche perché il problema non riguarda soltanto il colosso asiatico. In realtà siamo tutti coinvolti, visto il ruolo di “locomotiva” che Pechino ha svolto – e continua a svolgere – in un mondo sempre più globalizzato.
Non sono soltanto i crolli continui delle Borse a preoccupare. Ancora più importanti risultano i dati drammatici dell’import-export. Il taglio delle stime di crescita del Pil è stato ufficializzato dall’ultima Assemblea Nazionale del Popolo, nel corso della quale il premier Li Keqiang ha reso noto che è previsto un aumento “soltanto” del 7,6% a fronte del 10,1% dell’anno passato. Cifre, in ogni caso, del tutto rispettabili, considerando che nell’Unione Europea gli osservatori si eccitano quando viene prevista una crescita dello “zero virgola qualcosa”.

Ma, come dicevo poc’anzi, assai più neri sono i dati dell’import-export. Sono le stesse autorità di Pechino ad annunciare che, nel mese di febbraio 2016, l’export ha subito un vero e proprio crollo facendo registrare una diminuzione record del 25,4% su base annuale. E pure l’import non se la cava bene: in quest’ambito il calo è del 13,8%.
Cifre che spaventano i mercati globali, giacché inducono a pensare che il “miracolo” cinese, avviato con le riforme economiche liberalizzanti di Deng Xiaoping, stia volgendo al termine. Se è così nessuno può rallegrarsi. Una Cina che importa ed esporta assai meno è in primo luogo una mina vagante per l’economia mondiale. E, in secondo luogo, un fattore di instabilità difficilmente gestibile. Si pensi, per esempio, all’enorme quota del debito pubblico Usa attualmente in possesso delle banche del Dragone.

Tuttavia è opportuno rammentare che il nodo vero della crisi anzidetta è politico ancor più che economico. Lo ha rilevato con precisione in un articolo pubblicato sul “Wall Street Journal” David Shambaugh, docente alla George Washington University e noto esperto di affari cinesi. La tesi sostenuta dallo studioso americano è che il Partito comunista cinese sta correndo il rischio, a dispetto del controllo assoluto esercitato sulla società civile, di essere scavalcato dagli avvenimenti in tempi neppure troppo lunghi.
Finora il boom economico ha mascherato le grandi tensioni ricorrenti nel Paese, e soprattutto quelle derivanti da rivolte delle minoranze etniche com’è accaduto in Tibet e nello Xinjiang a maggioranza musulmana (Uiguri). E anche il caso di Hong Kong non ha inciso più di tanto sulla politica nazionale.

Ora, però, la dirigenza deve affrontare problemi ancor più gravi e di difficile soluzione. Crescono le industrie entrate in fase di sovrapproduzione e le miniere che devono essere abbandonate perché non più remunerative. Si parla apertamente di milioni di lavoratori da licenziare in tronco, oppure ricollocati in altri settori. Tuttavia è difficile capire in quali, considerando l’enorme massa di manodopera di cui il Paese dispone.
E proprio questo è il vero dilemma che dev’essere affrontato. Nonostante brontolii neanche troppo nascosti e fiammate dovute ai dissidenti (peraltro controllatissimi dal regime), la stragrande maggioranza della popolazione era tutto sommato soddisfatta per la crescita economica impetuosa che ha consentito un miglioramento notevole delle condizioni di vita.

Se il meccanismo s’inceppa il Partito, che non vuole assolutamente cedere alcuna quota di potere, è costretto a percorrere strade nuove per impedire che il malcontento si traduca in ribellione. Ecco quindi l’idea di trasformare la RPC da maggiore esportatore mondiale in nazione economicamente “matura” e orientata ai consumi interni (un po’ come i Paesi della UE). Più facile a dirsi che a farsi, ovviamente.
Secondo Shambaugh, che echeggia una tesi diffusa tra economisti e politologi occidentali, Pechino potrà superare la crisi solo se abbandonerà il modello monopartitico e passerà a una fase di liberalizzazione politica. Premessa a suo avviso indispensabile per non bloccare la crescita economica.
Può darsi sia vero. Ma il fatto è che, agendo in quel modo, il PCC si suiciderebbe imboccando la strada di Gorbaciov che i leaders cinesi – incluso lo stesso Deng Xiaoping – hanno sempre detto di non voler intraprendere. Un vero dilemma, come si diceva prima, di fronte al quale ogni previsione diventa estremamente difficoltosa.

Tags: Cina Pechino
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