Crimini di guerra prima di Karadzic. Il comandante responsabile di tutto?

Il 23 febbraio 1946, presso la base militare americana di Los Baños a cinquanta chilometri da Manila, fu giustiziato il generale giapponese Tomoyuki Yamashita, condannato a morte per crimini di guerra da un tribunale militare statunitense: il processo, iniziato il 29 ottobre 1945 e durato poco più di un mese, si era concluso il 7 dicembre con la condanna capitale. Per capire il contesto anche le date sono importanti: ricorreva l’anniversario dell’aggressione giapponese a Pearl Harbour del 1941 mentre il processo di Norimberga era appena cominciato il 20 novembre 1945. Il tribunale americano – tra i cui giudici sedeva anche il generale Donovan, già capo dell’OSS (Office Strategic Service), servizio segreto operativo Usa che sarebbe diventato poi nel dopoguerra la CIA – aveva lavorato dunque con grande rapidità e soprattutto creando nella successiva giurisprudenza dei crimini di guerra la figura della ‘responsabilità di comando’.

CORTE MILITARE

In base a questo principio, denominato in dottrina ‘Yamashita Standard’ e utilizzato anche in altri processi, il comandante era ritenuto in ogni caso responsabile degli atti commessi da proprii subordinati. Nella fattispecie Yamashita era stato giudicato responsabile delle atrocità commesse dalle truppe al suo comando in particolar modo durante la repressione dell’insurrezione a Manila che aveva provocato circa centomila vittime civili tra il febbraio e il marzo del 1945. Yamashita tra l’altro non era un generale qualsiasi incaricato di un comando territoriale in un paese occupato: nel 1942 aveva fatto cadere Singapore, occupato la Malesia e l’Indocina francese in due mesi ottenendo il soprannome di ‘tigre della Malesia’; aveva comandato le forze di occupazione in Cina (Manchukuo) ed era stato inviato appositamente nelle Filippine nel 1944 dal governo imperiale giapponese che confidava nella sua nota durezza per respingere gli americani che avanzavano nel Pacifico.

Il generale giapponese Tomoyuki Yamashita, verso il patibolo

Il generale giapponese Tomoyuki Yamashita, verso il patibolo

Yamashita infine si era arreso agli alleati solo ai primi di settembre del 1945: non contemporaneamente alla resa del Giappone, ma solo quando era stato siglato l’armistizio sulla corazzata «Missouri». Inevitabile pertanto che, specifiche accuse a parte, questo curriculum avesse un certo peso durante il processo, tanto più che la lista delle atrocità di cui era imputato partivano proprio dall’occupazione di Singapore riguardando massacri di feriti o malati degenti presso ospedali inglesi. Leggermente diverso invece fu il caso di Manila, in cui effettivamente l’ammiraglio Iwabuchi aveva forzato gli ordini ricevuti combattendo strada per strada in città e le comunicazioni tra comando e truppe operanti erano state spesso interrotte. Nonostante le argomentazioni della difesa a tale proposito, la corte tuttavia non accettò queste considerazioni e condannò ugualmente Yamashita sancendo appunto il principio della ‘responsabilità di comando’.

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Nel 1948 fu condannato a morte e giustiziato anche Akira Muto, capo di stato maggiore di Yamashita: sebbene il tribunale in questo caso non fosse un tribunale militare americano, ma la Corte militare internazionale per l’Estremo Oriente, ovvero l’International Military Tribunal for the Far East (IMTFE) istituito il 26 aprile 1946, tale principio era stato ormai recepito e sarebbe stato in seguito inserito tra i protocolli aggiuntivi della Convenzione di Ginevra. Ai giorni nostri il principio è riemerso nei dibattimenti presso il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, ma con alterne vicende. Nel secondo grado di giudizio alla corte dell’Aja, molte pene comminate nelle sentenze sono state infatti alleggerite proprio accettando che il principio della ‘responsabilità di comando’ non sia assoluto – come nel caso Yamashita –, ma si debba invece giudicare quanto il comando e il controllo sui subordinati siano effettivi e reali.

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