
L’esecuzione dell’imam sciita Nimr al-Nimr decisa da Riad e l’assalto all’ambasciata saudita a Teheran portano vicinissimi i due giganti del Golfo a un confronto diretto. Un conflitto per ora politico pronto però a degenerare perché ne incrocia altri dove già si usano le armi. Parliamo di ‘quasi guerra’, uso delle armi non ancora direttamente contro l’uno all’altro che iraniani e sauditi già conducono in Siria, Yemen, Iraq, Libano e Bahrein. Ora la decisione dell’Arabia Saudita di rompere le relazioni diplomatiche con I’Iran alza ulteriormente il livello dello scontro. Scontro alimentato dalla rivalità religiosa datate dalla successione a Maometto ma che ha più terrene e laiche e ragioni geopolitiche politiche, economiche e di potere.
L’asprezza della scontro tra Iran e Arabia Saudita rischia, salvo peggiori sviluppi, rischia ora di far saltare la già fragile e poco efficace Coalizione contro lo Stato Islamico. Ed è stata l’Arabia Saudita di re Salman -già sospettata di sostegni non solo economici all’integralismo sunnita dello Stato islamico- a volere l’escalation in corso, certo perché infastidita dal vedere l’Iran diventare protagonista sullo scenario internazionale e mediorientale in particolare, dopo decenni di isolamento. Grazie soprattutto all’alleanza militare con la Russia di Vladimir Putin in Siria, e all’accordo sul programma nucleare che ha portato alla decisione americana di rinviare le sanzioni a Teheran. Una scelta di Obama sempre e solo subita.
E i sauditi sembrano pronti a tutto pur d’impedire un ritorno dell’Iran tra i protagonisti nella comunità internazionale. Obama, sostiene Rampini su Repubblica, sarebbe convinto che il Califfato possa essere sconfitto senza mandare truppe americane a riconquistarne i territori. E la riconquista deve avere come protagonisti dei combattenti sunniti. Perché ciò avvenga le potenze regionali ‘devono accantonare rivalità e concentrarsi sul nemico principale’, chiede Obama al G20. Ma così non è stato, soprattutto da parte di alcuni. Evidente da subito il doppio binario politico strategico di Arabia Saudita e Turchia in particolare. Prima in teoria e dopo nei fatti. Ankara che abbatte il jet russo e Riad che decapita lo Sheick sciita.
Molti dei protagonisti delle fragili e mutevoli coalizione anti Is avevano un nemico nazionale prioritario e diverso. Il dissenso sciita in casa per i Saud, i curdi per Erdogan. Quei curdi che combattendo Isis sostengono di fatto il regime sciita di Assad. Da Ankara il presidente turco sempre più islamista ora afferma di essere pronto persino a fare la pace col ‘diavolo Israele’ pur di sconfiggere la minaccia sciita. Ecco quindi chiare le ragioni della coalizione militare sunnita di 34 Stati nata formalmente per combattere Isis, ma operativa da subito contro l’alleanza pan-sciita guidata dall’Iran col sostegno accorto della Russia. La rivalsa integralista sunnita contro il potere centrale iracheno e siriano di marca sciita. E ora c’è chi si stupisce.
Un Medio Oriente post-americano confuso e lacerato dove petrolio e nucleare, soldi ed eserciti si intrecciano e si confondono con la religione e la politica. Dietro l’ escalation fra Arabia saudita e Iran, resiste certo l’antica contrapposizione politico-religiosa tra sunniti e sciiti. Ma nella sostanza stiamo assistendo solo una fase più cruenta della battaglia strategico energetica per la sopravvivenza tra ‘Petro-Stati’. Economie parassite del petrolio che, solo nel 2015 ha perso il 40 per cento del valore. Un ribaltamento dei mercati che potrebbe avere effetti dirompenti sulle strutture statali fragili delle petromonarchie che il sostegno popolare a dinastie assurde so lo sono sino ad oggi comprato con paradisi fiscali pagati dal petrolio.