
Indagare sui reati ambientali è diventato un mestiere pericoloso e difficile, soprattutto se a farlo sono certi giornalisti. Minacce, intimidazioni, violenze, censure, tentativi di corruzione o depistaggi, e in casi estremi anche omicidi. È il difficile lavoro del reporter ambientale raccontato in un drammatico resoconto di fine 2015 da Reporters Sans Frontières dal titolo emblematico “Clima ostile per i giornalisti ambientali”.
Dopo il Cop21 di Parigi le narrazioni sull’ambiente sono entrate prepotentemente nella scaletta di giornali e telegiornali. Ma si parla poco della “violenza contro le donne e gli uomini che indagano sul campo, spesso da soli”. Una violenza “che ha raggiunto un livello senza precedenti nel 2015″, ha dichiarato Christophe Deloire, segretario generale della Ong impegnata nella difesa della libertà di stampa.
Dal 2010 ad oggi sono stati uccisi almeno 10 cronisti che hanno ficcato il naso in vicende legate ai reati ambientali. Campo pericoloso e inchieste scomode, che sono costate la vita a Jagendra Singh e Sandeep Kothari in India nel 2015.
L’Asia meridionale (India, appunto) e il Sud-Est asiatico (Cambogia, Filippine e Indonesia) si contendono il primato sulla quasi totalità degli omicidi per inchieste ambientali.
Diversi giornalisti subiscono minacce, vengono aggrediti o imprigionati a causa delle loro indagini. Almeno sei di loro in Perù hanno riferito di essere stati perseguitati e picchiati nella primavera del 2015. Mentre il freelance Solidzhon Abdurakhmanov ha passato gli ultimi sette anni in compagnia di ladri e assassini in una prigione dell’Uzbekistan.
Tutti loro stavano indagando su disboscamenti illegali, oscure estrazioni petrolifere e inquinamento da parte di aziende.
Ci sono governi che ricorrono alla censura. È il caso della Cina, che ha fatto sparire dal web il documentario online sull’inquinamento dell’aria a Pechino “Under The Dome”. O dell’Ecuador, dove per legge viene impedito ai giornalisti di coprire servizi sullo sfruttamento petrolifero nel Parco nazionale Yasuni. Mentre il Canada ha imbavagliato gli scienziati federali per impedirgli di parlare con i giornalisti sugli incidenti legati alle estrazioni di petrolio dalle sabbie bituminose.
Altri cronisti, invece, denunciano un più amichevole approccio da parte di aziende che promettono generosi regali purché le inchieste finiscano contro un muro cieco. È successo nella Repubblica Democratica del Congo e in Canada. È il caso del giornalista canadese Stephen Leahy, a cui è stato offerto denaro da parte di una società mineraria in cambio del proprio silenzio. Accade di continuo e ovunque nel mondo, fanno sapere da Reportes Sans Frontières.
Nonostante le drammatiche testimonianze di chi cerca di scoprire che cosa c’è dietro ai molti reati ambientali, il meticoloso lavoro di raccolta e diffusione di queste informazioni “è tuttavia di vitale importanza se vogliamo far conoscere al mondo i pericoli che minacciano il nostro pianeta”, ha aggiunto ancora Christophe Deloire.
La difesa dell’ecosistema globale e del clima è considerata una sfida fondamentale per l’umanità. Per questo va rivolta particolare attenzione ai giornalisti che si occupano di questi temi, assumendosi grandi rischi.
Chi lavora in questo campo sa che deve trovare tra i suoi simili gli anticorpi necessari per resistere nella giungla di intimidazioni e violenze. È per questo che sempre più giornalisti ambientali si stanno riunendo in associazioni che puntano a migliorare la qualità delle relazioni e a costruire strumenti di difesa e ricerca sempre più raffinati.
Con l’augurio di un clima meno ostile per i reporter nel 2016.