
I finanziamenti sul clima rischiano di alimentare l’industria del carbone, tradendo così gli accordi appena raggiunti al Cop21 di Parigi. La maggior parte dei soldi per i progetti sui cambiamenti climatici passano attraverso il Fondo verde per il clima – il Green Climate Fund – l’istituzione creata dall’Onu. Ma c’è il sospetto che siano proprio le Nazioni Unite a coprire gli affari sporchi di carbone (per quanto leciti) delle lobby del fossile.
Vediamo come.
Da una parte ci sono i paesi poveri, che aspettano di vedersi accreditare finanziamenti per i progetti di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici. Dall’altra i paesi ricchi, che mirano a sborsare il meno possibile. In mezzo c’è il Green Climate Fund, l’agenzia verde dell’Onu attraverso la quale vengono erogati la maggioranza dei fondi per i progetti presentati.
Il meccanismo prevede dei mediatori accreditati. In questo caso sono una ventina di banche. Requisiti richiesti per accedere ai crediti sono trasparenza e propensione agli investimenti sostenibili. Ma è davvero così?
Ne dubitano le Ong che da anni si occupano di questioni climatiche. Ottantotto di loro si erano sollevate alla vigilia del Cop21 di Parigi, denunciando gli stretti rapporti tra il Fondo verde e alcune banche d’affari con un torbido curriculum.
Molte di loro hanno a che fare con investimenti nel carbone. È il caso ad esempio di Deutsche Bank, (con 13,81 miliardi di dollari), il Crédit Agricole (9,49 miliardi di dollari) o la svizzera HSBC (con 7,3 miliardi). Le ultime due sono accusate di riciclaggio di denaro. Mentre HSBC finanzia anche l’industria dell’olio di palma, contribuendo alla selvaggia deforestazione dell’Indonesia.
Meno chiara è la procedura che ha consentito loro di essere accreditati presso il Green Climate Fund, visti i grandi investimenti in asset pericolosi per il clima. Le Ong temono dunque che i fondi serviranno a finanziare progetti poco sostenibili, a danno delle fonti rinnovabili. Ingrassando le casse delle grandi banche e dell’industria che tratta combustibili fossili.
Mentre sono esclusi dal meccanismo gli istituti di credito dei piccoli Paesi e di quelli poveri, i più colpiti dai disastri climatici. Secondo la versione ufficiale mancherebbero di competenze ambientali e di strutture necessarie ad ottenere l’accreditamento presso il Green Climate Fund.
Gli accordi di Parigi rischiano così di andare in fumo per un meccanismo perverso che sembra essere stato cucito addosso ai grandi attori del credito, accusano le Ong ambientaliste. Altre sessanta banche – oltre alle venti attuali – hanno chiesto di entrare in partita. Mentre il Consiglio del Fondo ne sta valutando ventinove. Quei soldi fanno gola a molti. Ma quanto è credibile oggi l’Agenzia dell’Onu che ha accolto banche con le mani sporche di petrolio e carbone?