
Stati Uniti, Cina e India sono i tre più grandi inquinatori del pianeta. Tutti e tre annunciano da tempo una strenua lotta ai cambiamenti climatici, con nuove leggi e ingenti investimenti. L’hanno ribadito anche all’apertura dei lavori del Cop21 di Parigi. Ma nessuno di loro è disposto a sottoscrivere accordi legalmente vincolanti sulla riduzione delle emissioni di gas serra, la prima causa del clima malato.
Questa schizofrenia climatica è sotto gli occhi di tutti. Ma se davvero si vuole cambiare verso alla pericolosa deriva presa dal pianeta, allora “bisogna abbattere per prima cosa l’ipocrisia”. A dirlo è Christiana Figueres, capo della Unfcc, ovvero l’organismo Onu artefice della Conferenza mondiale sul clima.
Le emissioni tossiche continuano a salire ad un ritmo impressionante. La temperatura media globale è aumentata di 1°C dall’inizio dell’era pre-industriale. Scongiurare l’abbattimento della soglia dei 2°C è l’obiettivo del Cop21. Superato quel muro il mondo potrebbe essere dominato da cambiamenti climatici disastrosi e irreversibili.
Col risultato di lasciare in eredità – a dire il vero non troppo lontana – un mondo più ostile alla specie umana, più povero e soprattutto più disuguale. Rischio ancora scongiurabile.
Ci vuole l’impegno dei 196 capi di governo riuniti a Parigi, ma soprattutto quello dei Paesi ricchi (Usa ed Europa per primi) e dei capofila di quelli cosiddetti emergenti, come Cina e India.
IL CARBONE DELL’INDIA
Il primo ministro indiano, Narenda Modi, è stato chiaro: “I paesi ricchi non possono imporci di abbandonare le fonti fossili”. Ma contemporaneamente annuncia insieme al presidente francese Francois Hollande “un’alleanza per il solare”. Obiettivo, rastrellare 1.000 miliardi di dollari di investimenti per sostituire il carbone, che oggi costituisce il 59% della potenza elettrica installata nel Paese. Idee poco chiare o astuzia diplomatica?
Fatto sta che l’India ha progettato e sta costruendo 2.440 nuove centrali. Le emissioni di CO2 salirebbero del 400 per cento entro il 2030. Addio al contenimento dell’obbiettivo dei 2°C. Soglia che verrebbe comunque superata – 150 per cento – anche se non se ne costruisse nemmeno una centrale in più.
LO SHOW DELLA CINA AL COP21
Lo spettacolare annuncio di Pechino alla Conferenza di Parigi: “Taglieremo le principali emissioni inquinanti del settore energetico del 60% entro il 2020”. Ma non dice quali. Contemporaneamente il Consiglio di Stato promette una riduzione di 180 milioni di tonnellate all’anno di CO2 per quanto riguarda le centrali a carbone.
E anche qui non spiega come, visto che anche la Cina rifiuta accordi legalmente vincolanti in virtù del suo status di pese emergente. Propaganda o piano d’attacco verso i paesi ricchi? Probabilmente tutt’e due. Ma su una cosa Pechino ha ragione: la scarsa propensione dell’Occidente ad aiutare i Paesi in via di sviluppo nella corsa alle risorse economiche necessarie per combattere il riscaldamento globale.
STATI UNITI PENTITI MA NON TROPPO
“Sono venuto di persona come rappresentante della prima economia mondiale e da secondo inquinatore per dire che noi, gli Stati Uniti non solo riconosciamo il nostro ruolo nell’aver creato il problema ma che ci assumiamo la responsabilità di fare qualcosa in proposito. Possiamo cambiare il futuro qui e adesso”.
È il presidente Usa Barack Obama a parlare. Dimentico forse della risolutezza del suo segretario di Stato John Kerry, nell’assicurare che gli Stati Uniti non accetteranno alcun vincolo legale sul contenimento delle emissioni di CO2. Paura di nuocere agli interessi delle iproprie aziende? In ballo, vale la pena ricordarlo, ci sono due trattati commerciali di portata globale: il TPP nell’area del Pacifico e il transatlantico TTIP.
In entrambi i casi mancano misure di protezione ambientale. E allora? Nessun impegno finora presentato a Parigi arriva a centrare l’obbiettivo sperato. I documenti depositati dai governi tratteggiano un pianeta inesorabilmente proiettato verso l’aumento delle temperature di 3,5°C rispetto all’era preindustriale.