
Con buona pace del presidente Hollande, non siamo in guerra. Però se una persona di cui ci fidiamo come papa Francesco parla di una terza guerra mondiale strisciante deve avere le sue buone ragioni. E allora non ci sentiamo molto tranquilli. Non siamo tornati ai tempi della guerra fredda che hanno impaurito la mia giovinezza, ma i pericoli per la pace sono più concreti che nel passato recente.
A evitare la guerra ci si prepara, anche attraverso la comunicazione, cercando di preservare la pace, vigilando sulla opinione pubblica, difendendola dallo stress e dalla paura, diffondendo informazioni corrette, ragionate, prive di odio.
Propaganda, dice qualcuno? No, questo modo di fare comunicazione si chiama semplicemente responsabilità e spirito di servizio informativo nei confronti della propria comunità. Spirito di giustizia e di misericordia, direbbe papa Francesco.
È noto che in occasione delle crisi, e quelle di questi giorni ne sono ennesima conferma, gli utenti tornano in massa al servizio pubblico. Io credo che nessun ragionamento sul ruolo in Europa dei servizi pubblici possa evitare da ripartire da qui, dalla comunicazione di crisi e di conflitto. Nella mia vita professionale ho vissuto varie grandi ondate di crisi (crollo della lira, brigate rosse e nere, guerra di mafia, mani pulite, migrazioni, torri gemelle, terrorismo islamista…).
Tutte hanno segnato profondamente il mondo dell’informazione italiano e la RAI. Ora l’emergenza del terrorismo islamista è ipotesi concreta, e in queste condizioni di incertezza e pericolo posso solo sperare che l’azienda affronti velocemente una seria riforma della sua struttura informativa, riducendo drasticamente direttori e testate, valorizzando le buone capacità professionali esistenti nell’azienda e mettendo da parte gerarchie lottizzate, conduttori di bella presenza e scarsa esperienza e così via.
Credo che sia l’ora giusta per tornare a gridare con forza che i servizi pubblici servono, sono indispensabili. Lo sono perché l’assetto generale dei sistemi comunicativi nostrani è davvero troppo fragile perché se ne possa fare a meno. Non solo per i soliti ragionamenti sui sistemi mediali che ci facciamo tra addetti ai lavori e che poco interessano: dobbiamo ora catapultare i nostri convincimenti nell’arena geopolitica.
Grandi protagonisti della scena mondiale come Russia e Cina, può anche non piacere come lo fanno, ma certo si tengono bene stretti i loro servizi pubblici e fanno il possibile per tenere Internet sotto controllo. Lo stesso fanno molti Paesi che aspirano a contare di più a livello internazionale.
Ma a mio parere i più bravi a fare servizio pubblico senza che quasi nessuno se ne accorga sono gli Stati Uniti, che dopo aver esercitato a lungo un controllo di fatto sui grandi network ora sono riusciti ad estenderlo al web, del quale conservano la governance.
E non si può forse dire che Google e Apple e Microsoft e Twitter e Facebook e Amazon non siano in sostanza servizi pubblici? Certo pronti a guadagnare e far guadagnare miliardi di dollari ai loro azionisti, ma anche a diffondere princìpi, valori e modi di vita e di consumo americani nel mondo?
Voi pensate forse che le agenzie federali siano assenti e distratte rispetto alla gestione di questi grandi sistemi di comunicazione americani? Non sto dando giudizi di valore e neppure gridando al grande fratello, che comunque ormai è inevitabilmente consolidato.
Si tratta di un sistema del tutto diverso dal nostro, parlo di quello americano, nel quale le libertà appaiono rispettate, si lascia spazio alle voci critiche, ma la presenza pubblica fatta non di proprietà diretta ma di sistemi di influenza e controllo non viene mai a mancare. Certo con momenti bui, con eccessi e prevaricazioni, che però trovano antidoti e muri di contenimento all’interno degli stessi prodotti dei sistemi di comunicazione, il cinema, la televisione, la stampa, i libri, la controinformazione e le varie controculture che dilagano sulla rete.
La presenza della mano pubblica c’è anche nelle privatissime università, a tal punto che recentemente ho letto su Vice News una classifica delle università americane nelle quali è più rilevante il finanziamento militare, e nell’elenco c’erano tutti i grandi campioni privati, da Yale a Stanford al MIT.
Che fa l’Europa di fronte a questa mobilitazione diffusa tra i grandi soggetti nazionali perché i sistemi di comunicazione e di formazione rispettino interessi e valori propri?
Beh, noi abbiamo ancora le nostre ideologie moribonde ma mai messe da parte, i nostri TG1 TG2 e TG3, o in Europa la nostra dichiarazione di Amsterdam mal sopportato baluardo perché i finanziamenti pubblici non spariscano travolti dall’ondata liberista.
Abbiamo le nostre controculture dilaganti, ma l’intervento pubblico nella comunicazione a difesa della coesione sociale viene presentato come un retaggio educativo del passato, o al massimo come necessità di ridare efficienza a una azienda culturale importante.
Sembra non esserci una vera strategia, un bisogno forte e sentito di usare la comunicazione pubblica per tenere in vita l’Europa e le sue culture nazionali. Potremmo e dovremmo rafforzare una via europea diversa ma esistente, democratica, professionale di fare comunicazione usando fondi pubblici, una via capace di superare gli stessi interessi nazionali per portarli a un livello di attese e prospettive più ampio, quelle dell’Europa, e poi per aprire la strada a una dimensione universale, davvero globale della comunicazione pubblica.
Invece preferiamo risparmiare sotto la bandierina delle liberalizzazioni, rinunciando di fatto ad ogni forma razionale di comunicazione pubblica
L’Europa non comunica se stessa, le singole nazioni operano in ordine sparso con obbiettivi limitati e spesso divergenti, la Gran Bretagna chiusa nella sua torre d’avorio, parlo della BBC, incapace di esportare la sua tradizione in Europa, la Germania chiusa nei suoi castelli regionali ai quali è vietato collaborare all’esterno, la Spagna preoccupata solo di limitare gli spazi pubblici nel timore che si rafforzino le autonomie regionali, Francia e Italia con i loro problemi…
Se vogliamo rilanciare l’Europa come entità politica e culturale una delle prime cose da fare è rimettere in ordine la legislazione sulla comunicazione mettendo al centro il rafforzamento dei servizi pubblici costruiti sulla valorizzazione delle autonomie professionali, senza tante inutili paure perché le libertà alla iniziativa privata non le toglie più nessuno, e il rischio casomai è di veder scomparire le libertà nell’impotenza e nell’emarginazione politica ed economica.
Rilancio, finanziamenti garantiti, controllo sociale, trasparenza, coinvolgimento dell’opinione pubblica, costruzione di un modello nuovo di comunicazione pubblica europea democratica e professionale aderente alla nostra cultura e alla nostra storia, per un progetto di Europa che deve trovare i suoi momenti di costruzione unitaria attraverso leader comuni e prodotti di comunicazione comuni.
E allora è evidente che occorre un soprassalto di consapevolezza dei leader politici europei perché affidino almeno ai gruppi più forti del servizio pubblico radiotelevisivo in Europa il mandato di costruire una piattaforma comune che garantisca l’accesso universale anche ai nuovi media, distribuisca e valorizzi i prodotti, favorisca la collaborazione linguistica, trasferisca al web e ai suoi strumenti di comunicazione personalizzata e interattiva la capacità di contrastare sia le controculture violente sia quelle populiste, in modo da offrire un nuovo progetto di cultura politica al continente.
Occorre una nuova capacità operativa ampia, poco controllata e molto propositiva, coinvolta e progettuale, ringiovanita, capace di dialogare e competere con i protagonisti mondiali della comunicazione. Non è importante tanto che ci sia la proprietà pubblica quanto che ci sia la volontà pubblica nel futuro dei soggetti europei della comunicazione.
La politica ha le sue responsabilità se non coglie fino in fondo la rilevanza di questo progetto. Per quanto riguarda l’Italia, in questo momento circolano tante voci scoraggiate e pessimiste circa la riforma della RAI. Io non mi unisco al coro semplicemente perché ancora non ho capito.
Il progetto è solo quello di svecchiare la RAI, di migliorarne la performance sul web, di far vedere che si è stati capaci di gestirla meglio? Sarebbe poco utile se dietro a tutto questo non ci fosse anche un progetto Italia e a seguire un progetto Europa. Idee politiche che richiedono grandi strategie di comunicazione.
Infine, la RAI. Certamente non spetta all’azienda fare i piani per il paese, ma mettersi nelle condizioni di saper fare la sua parte, questo sì. Dunque ci aspettiamo (ed è solo un elenco di possibili priorità):
rapida trasformazione in media company con l’obbiettivo di garantire l’accesso universale alla rete,
imminenti piani di ringiovanimento,
semplificazione delle strutture editoriali organizzate per generi, progetti di comunicazione pubblica al posto dei marketing di canale,
formazione dei quadri orientata alle motivazioni di servizio pubblico,
ampia mobilità interna,
selezioni dirette ad acquisire dall’esterno potenzialità e competenze carenti come quelle creative,
e infine sostegno esplicito alla discussione interna ed esterna sul valore etico delle scelte editoriali dell’azienda,
anche a rischio di contraccolpi e mal di pancia nelle responsabilità gerarchiche…
In estrema sintesi, una RAI protagonista nel valorizzare il dibattito sulla strategia di servizio al pubblico e sulla qualità della sua offerta.