
Il 28 novembre 1941, cinque mesi dopo l’aggressione all’Unione Sovietica, a Berlino si svolse un incontro tra Adolf Hitler e il gran muftì c: ne esiste documentazione con riassunto degli argomenti trattati, ma non emerge esplicitamente il suggerimento del leader arabo di accelerare la soluzione finale della questione ebraica. Sembra ormai più che fondato che la decisione dello sterminio fosse invece maturata prima, tra la fine di luglio e l’autunno del 1941 nella cerchia ristretta delle più alte cariche del III Reich, come ricordato in una pagina del diario di Joseph Goebbels.
Tale decisione fu poi resa nota come già in atto a tutte le componenti della burocrazia tedesca potenzialmente interessate (ministeri, amministrazioni dei territori occupati, partito nazista e corpi di polizia) nel corso della famigerata conferenza di Wannsee (vicino a Berlino) che si tenne il 20 gennaio 1942 e che fu organizzata e protocollata da Adolf Eichmann.
Tuttavia, già dall’ottobre 1939 al gennaio 1940, in alcune zone orientali della Polonia si erano già verificate circa 700 esecuzioni di massa con inumazione in fosse comuni. Il comandante generale della Polonia occupata Johannes Albrecht Blaskowitz – vecchio prussiano della Wehrmacht (era nato infatti nel 1883) e che si suicidò nel 1948 durante il processo cui era stato sottoposto – protestò a Berlino in con energia contro questi eccessi, ma gli «Einsatzgruppen» (reparti speciali di polizia) comandati da Udo von Woyrsch avevano già ucciso circa 15.000 ‘insorti polacchi’, dei quali circa la metà ebrei: la rapida e brutale efficienza con cui si svolsero i massacri induce a pensare che le unità speciali impiegate fossero già state addestrate allo scopo e quindi che un vago progetto esistesse già allora, indipendentemente da altra documentazione.
Le simpatie nazi-fasciste del muftì Amin al-Husseini sono arcinote e fuor di dubbio, considerando che fu anche abbondantemente finanziato da Germania e Italia prima della Seconda Guerra mondiale. Solo durante la guerra però si fece ricorso a lui per ottenere la fiducia delle popolazioni musulmane sparse in un’area vasta che andava dai Balcani al Caucaso e al Nord Africa soprattutto per ottenere arruolamenti a fianco delle truppe dell’Asse o reclutamenti di ex prigionieri di guerra alleati allo scopo di farli combattere contro Francia e Inghilterra, odiate potenze coloniali.
In questo contesto si spiegherebbe il ‘successo’ nell’arruolamento di musulmani bosniaci nelle SS grazie al sostegno dato da Amin al-Husseini all’operazione e alle sue visite di incoraggiamento in Croazia e in Bosnia. Più che un consigliere la sua figura piena di ombre sembra piuttosto quella di uno strumentalizzato, sebbene pesantemente coinvolto con il nazismo.
Per quanto riguarda invece un suo possibile ruolo più attivo, esso era già emerso da una testimonianza rilasciata al processo di Norimberga il 3 gennaio 1946 da Dieter Wisliceny, capitano delle SS e stretto collaboratore di Adolf Eichmann: secondo Wisliceny – processato per crimini di guerra, condannato a morte e giustiziato a Bratislava nel 1948 – i sentimenti del muftì erano ancora più antisemiti di quelli degli stessi tedeschi e, in incognito, accompagnato da Eichmann, pare si fosse recato in visita ai forni di Auschwitz.
La stessa testimonianza, che però non ebbe altre conferme, fu ripetuta in altri procedimenti e ripresa nella documentazione prodotta dall’accusa nel processo ad Eichmann che si svolse a Gerusalemme. Una sola frase dunque che sembra più un’opinione che il resoconto di un fatto visto da un testimone oculare.