
Sebbene già le legioni romane avessero al seguito un chirurgo, lo sviluppo delle arti sanitarie militari – o meglio del trattamento sanitario organizzato dei feriti in guerra – non ebbe un’evoluzione continua e lineare. Ciò fu dovuto alle diverse forme che assunsero i conflitti, dai diversi protagonisti e dal contesto nel quale si combatterono: in altre parole, benché oggi possa sembrare paradossale, era più facile che un ferito nemico fosse curato con premura nel barbaro medioevo che non nelle guerre civilizzate successive.
Tra cavalieri anche di nazionalità o lingue diverse esisteva comunque un codice d’onore condiviso, anche se ne erano esclusi tutti gli altri. I fanti feriti insomma agonizzavano sul campo di battaglia e spesso erano spogliati di tutto ancora moribondi. Il principio universale che tutti i feriti abbiano indistintamente diritto ad essere curati e rispettati è decisamente molto più recente, ma spesso ancora violato o portatore di altre ambiguità.
Ufficialmente esso risale a metà dell’Ottocento e tutti ricordano Henry Dunant, fondatore della Croce rossa. La drammatica situazione in cui Dunant prestò la sua opera fu la battaglia di Solferino (1859), autentico massacro tra francesi, austriaci ed italiani, che scosse le coscienze europee. Tra mille difficoltà, incomprensioni e rivalità, in breve nacquero la Croce Rossa internazionale e le singole organizzazioni nazionali che sarebbero diventate grandi protagonisti delle guerre.
Solferino però era stata una battaglia combattuta tra eserciti regolari che si riconoscevano reciprocamente, mentre ben diversa era la situazione in caso di rivolte popolari o insurrezioni. In altre parole la stessa Francia, che aveva sostenuto la nobile iniziativa della conferenza internazionale dalla quale sarebbe nata appunto la Croce rossa internazionale, fu piuttosto brutale nel trattamento dei feriti che avevano combattuto per la Comune e sebbene si trattasse di cittadini francesi.
Altra contraddizione fu il ruolo della Prussia: la nazione più militarista d’Europa affrontò nel 1870 la guerra con la Francia disponendo di un’organizzazione sanitaria impeccabile in quanto non solo aveva aderito a tutte le convenzioni siglate, ma aveva anche destinato risorse ingenti a un servizio che funzionava perfettamente e con teutonica acribia. Per coordinare il soccorso, il trasporto nelle retrovie e la cura dei feriti intervenne personalmente la regina di Prussia, affiancata da uno stuolo di nobildonne tedesche.
In un certo senso fu il completamento dello stato-nazione ottocentesco che andava in guerra: se in passato combattevano solo i soldati, anche il resto della nazione ora si mobilitava. Non è un caso che il filosofo Friedrich Nietzsche, dopo l’ubriacatura patriottica della guerra austro-prussiana del 1866 alla quale aveva partecipato come graduato di artiglieria, scegliesse nel 1870 di fare il portaferiti riportando in lettere e discorsi un giudizio assai critico e ben diverso sui conflitti da quello che aveva espresso pochi anni prima. La realtà della guerra insomma metteva in crisi la filosofia.
E poiché di solito la nostra storia è poco conosciuta, sarebbe il caso di ricordare anche la vicenda di un medico italiano: Ferdinando Palasciano (1815-1891), ufficiale medico dell’esercito delle Due Sicilie. Nel 1848 la città di Messina insorse contro re Ferdinando e la risposta del sovrano fu un bombardamento ininterrotto della durata di cinque giorni da terra e dal mare.
Rasa al suolo o incendiata la città, si pose il problema dei feriti che nella stragrande maggioranza erano suoi abitanti e quindi civili. Non fu eseguito l’ordine di passare per le armi tutti i ribelli, ma numerosi feriti rimasero abbandonati senza cure. Palasciano ne curò un gran numero, nonostante l’ordine fosse di non farlo: fu processato e condannato a morte e si salvò per la grazia concessa che arrivò però quasi all’ultimo momento.