Olio di palma, storia di ordinaria schiavitù

Ventuno giorni in mare su un peschereccio usato da contrabbandieri. Sono in 200, stipati in spazi angusti con poca acqua e poco cibo. Con decine di morti attorno. A ucciderli le malattie e le percosse dei loro aguzzini. E il caldo insopportabile. Destinazione finale, le piantagioni della Malesia, dove si produce l’olio di palma venduto alle grandi multinazionali del cibo, tra cui Nestlè e Procter&Gamble. Ma appena sbarcati la sorpresa: prigionieri nella giungla in attesa che da casa qualcuno paghi un riscatto, con l’obbligo di un lavoro che si rivela subito insopportabilmente faticoso.

 

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È accaduto anche a Mohammed Rubel, bengalese di ventidue anni la cui storia è stata ricostruita dal Wall Street Journal. Il quotidiano americano spalanca una porta sull’inferno di molte migliaia di persone in cerca di un futuro migliore. Col giovanissimo Mohammed molti altri finiscono in mano a spietati trafficanti di esseri umani. Storie di ordinario sfruttamento e moderna schiavitù che raccontano l’insaziabile mercato alimentare del grasso Occidente. Nelle piantagioni malesi si lavora sette giorni alla settimana. E senza alcuna retribuzione. Anche se il governo smentisce.

 

Mohammed Rubel lavora come schiavo nella più grande piantagione malese, controllata da Felda Global Ventures, una compagnia creata dal governo locale. Felda è tra i maggiori produttori al mondo di olio di palma grezzo. Mentre il suo maggiore cliente – secondo i dati sulle spedizioni negli Stati Uniti – è il colosso dell’agroalimentare Usa Cargill. L’inchiesta del Wall Street Journal rivela che lo stesso Cargill rivende poi l’olio di palma alle grandi multinazionali dell’alimentazione. E dalle colonne del giornale coinvolge anche Nestlè e Procter&Gambe. Ognuno di loro si difende dicendo di non essere a conoscenza delle condizioni disumane in cui versano i lavoratori.

 

Buona parte del traffico di braccianti si regge sugli immigrati provenienti da Bangladesh e Myanmar (la vecchia Birmania), considerati tra i paesi che forniscono la più alta percentuale di manodopera quasi gratuita al mondo. I cercatori di lavoro affrontano proibitivi viaggi in mare a bordo di barconi poco sicuri. Storia molto simile ai profughi africani e mediorientali nostrani, che sbarcano sulle coste europee. Non è una novità per il Congresso Usa, che conosce bene quello che accade. Il Dipartimento di Stato americano lo scrive anche nel suo rapporto annuale sul traffico dei migranti fin dal 2009.

 

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Decine di inchieste – alcune di facciata – condotte anche dalla stessa Malesia hanno rivelato l’esistenza di centinaia di fosse comuni. Ne sono state scoperte 139 al confine con la Tailandia, varco privilegiato per le piantagioni vicine. Una galleria dell’orrore che rivela la spietatezza del traffico di esseri umani. Molti infatti non hanno la fortuna di poter pagare il riscatto e vengono uccisi subito. Tutti loro invece sono convinti di andare a lavorare come braccianti. Ma attendono mesi o anche anni nel cuore della giungla. Mentre infine i più fortunati vengono impiegati gratuitamente nelle piantagioni destinate alla produzione del prezioso olio di palma che arriva sulla nostra tavola.

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