Pechino-Washington:
spionaggio elettronico
e tensioni ad elastico

Che i rapporti fra Cina e Stati Uniti siano piuttosto tesi è cosa nota e, ormai, nessuno se ne meraviglia più di tanto. Tutto questo mentre, in apparenza, i due Paesi intrattengono normali relazioni, con scambi frequenti di visite di personaggi di primo piano da entrambe le parti.

Eppure il fuoco cova sotto le ceneri, e sempre più spesso si verificano episodi che lasciano intravedere uno scenario a dir poco inquietante.

La verità è che la RPC non perde occasione per provocare gli americani a ogni livello. E’ una sorta di gioco a rimpiattino il quale, però, rischia di portare prima o poi a uno scontro diretto i cui esiti sono ovviamente imprevedibili.

 

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Dopo i numerosi ammonimenti USA relativi all’occupazione “de facto” da parte di Pechino di vaste porzioni del Mar Cinese Meridionale, appropriandosi in più occasioni di acque che tutti considerano internazionali, ora si apre un nuovo capitolo nella “guerra elettronica” che da tempo impegna le due superpotenze.

Occorre subito notare che tale tipo di guerra è meno visibile di quella convenzionale ma, almeno potenzialmente, altrettanto pericolosa. E’ dunque accaduto che oltre 4 milioni di identità digitali riconducibili a funzionari governativi statunitensi siano state violate da hacker.

 

 

Un attacco davvero imponente, di certo il maggiore verificatosi nella storia dello spionaggio elettronico. Washington ha subito affermato che di detto attacco sono responsabili i cinesi. Altrettanto pronta la reazione di Pechino, che ha accusato gli USA di lanciare accuse non fondate e, soprattutto, non dimostrate.

Allo stato dei fatti nessuno può affermare con certezza se gli americani hanno ragione o meno, anche perché in questo campo la certezza non esiste. Diciamo allora che la “paternità” cinese di un’operazione su scala così vasta è assai probabile e, addirittura, spiegabile.

 

 

Rientrerebbe infatti a pieno titolo in quella sorta di gioco a rimpiattino che sopra menzionavo. Più che allo scontro diretto e aperto, i cinesi cercano in ogni modo di “testare” in primo luogo l’effettiva capacità di reazione USA e, fatto forse ancora più importante, vogliono capire sino a che punto sia forte la volontà americana di usare la suddetta capacità di reazione.

Non è certo una differenza di poco conto, anche se il gioco – come già detto – può rivelarsi alla lunga pericoloso con il verificarsi di un incidente non previsto. Si noti al riguardo che, riferendosi alla tensione nel Mar Cinese Meridionale, il governo di Pechino non ha esitato ad affermare che una potenza “in declino” come gli Stati Uniti non può pretendere di dettar ancora legge negli equilibri strategici dell’Estremo Oriente.

 

 

Che gli USA siano in declino lo dicono in molti, vera o falsa che sia tale tesi. Però nessun Paese lo aveva finora messo nero su bianco in una nota ufficiale, ed è significativo che sia proprio la Cina a farlo.

Tornando ora all’episodio degli hacker, qualcuno si è chiesto se si tratti di individui isolati oppure di un’organizzazione. Se le accuse americane sono fondate il quesito è ingenuo, poiché non è plausibile che dei singoli pirati informatici possano condurre in porto operazioni simili. E infatti Washington ne ha subito attribuito la responsabilità all’esercito della RPC, notoriamente assai attrezzato da questo punto di vista.

 

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Comunque, prescindendo dai vari episodi, ci troviamo di fronte a uno scenario mondiale sempre più instabile e incerto, nel quale la Cina sta apertamente lanciando il guanto della sfida all’unica superpotenza rimasta dopo la conclusione della Guerra Fredda.

Può darsi che Pechino cerchi l’espansione mondiale per evitare la deflagrazione dei suoi numerosi problemi interni. Ma non si può trascurare un elemento decisivo. Gli americani non si spingono oltre certi limiti con i cinesi – a differenza di quanto stanno facendo con i russi – perché la RPC ha in pegno nei suoi forzieri una parte molto consistente del debito pubblico USA.

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