
Uno dei fratelli di mia madre, caduto il Palazzo d’Inverno a Leningrado, si trovò in divisa e armato a fianco di Lenin. Il suo ruolo: proteggere il leader della Rivoluzione. Come era diventato, così giovane, uno dei comandanti della guardia del corpo di Vladimir Ilic, è sempre stato per noi un mistero. Lui stesso, parlandone con Michele e Betty molti anni dopo, non fornì che pochi particolari di quei tempi drammatici. Da quella posizione di privilegio passò all’Accademia militare da dove emerse anni più tardi con qualche stella e una laurea in ingegneria militare. Negli anni ’30 Stalin, eliminò, in un modo o l’altro, molti degli ufficiali ebrei nelle forze armate. Tra i sopravvissuti c’erano gli elementi più legati all’ideologia e al regime. La più parte erano commissari politici, altri propagandisti, altri ancora erano passati indenni, forse per distrazione, attraverso le maglie della prima grande purga.
Lo zio era riuscito a superare quel momento difficile e portava i gradi di generale durante la Seconda guerra mondiale quando prese parte alla storica e lunga difesa di Leningrado – bisogna chiamarla San Pietroburgo oggi? – assediata dall’esercito di Hitler. Stavano ancora contando i morti quando gli appesero sul petto l’Ordine di Lenin. Nel conflitto non pochi comandanti di origine ebraica si distinsero per eroismo e per capacità. Decine – forse centinaia – avevano i gradi di generale. In complesso gli ebrei sovietici ebbero per il loro contributo alla Grande guerra patriottica e la sconfitta del nazifascismo 160.772 decorazioni di vario tipo. Molti di questi ex combattenti sfilano ogni anno per le vie di Gerusalemme, in divisa e con il peso delle medaglie sul petto, per celebrare la fine della guerra in Europa.
Il fratello di mamma era orgoglioso di quel riconoscimento appeso al petto, ma la gloria non doveva durare a lungo. Stalin ordinò una nuova ondata anti-semitica. Gli ufficiali superiori vennero spediti lontani, molti furono costretti a ritirarsi e a chiudere con la pensione anticipata la loro carriera. Cosa abbia fatto in quegli anni è rimasto un segreto. Non volle entrare nel dettaglio. Si sa, comunque, che fu messo da parte, ma non incarcerato o torturato, e riabilitato dopo la morte del dittatore. Gli chiesero scusa. E lo mandarono in pensione con una dacha nella campagna di Leningrado. Fu là, nel 1962, che Michele e Betty andarono a trovare Griscia, lo zio generale, insieme con la sua famiglia.
Papà, all’epoca vice direttore di Paese Sera, era stato in precedenza a Mosca (con il collega Mario Benedetti e suo grande amico il giornalista-scrittore Ruggero Zangrandi) come ospite del direttore dell’Isvestia. Un redattore del quotidiano sovietico riuscì nel giro di pochi giorni a rintracciare la famiglia di mia madre. Non c’erano stati contatti con loro dall’inizio della guerra. Nessuno sapeva se fossero morti insieme con i più di venti milioni di altri russi, ebrei e non, decimati dal conflitto e dalla rabbia nazista. Fu un incontro pieno di emozione. Per Betty fu un ritorno alle origini, o quasi. Leningrado non era certo Khoyniki.
Bastarono pochi giorni perché Betty riprendesse a parlare il russo, lingua abbandonata da tanto tempo. Il generale, epurato e riabilitato, era ancora comunista. La richiesta di Betty di poter acquistare un’icona, un’opera d’arte da riportare a casa come regalo per il figlio da poco sposatosi, lo scandalizzò profondamente. Non perché pensasse alle sue origine ebraiche: era soltanto anticlericale. Amava il suo paese e il suo sistema politico. Stalin, disse con convinzione, era stato un aberrazione e le cose, prima o poi, sarebbero cambiate per il meglio. Volle portare Michele e Betty in campagna, nella sua dacha, e una mattina indossò l’abito buono, vi appese alcune file di decorazioni e medaglie e insieme con loro andò alla stazione di polizia per ottenere l’autorizzazione a uscire da Leningrado con due stranieri.
§§§
Eric Salerno, giornalista, scrittore, ed amico. Ciò che abbiamo letto è una sua memoria personale, di famiglia, seguita al dibattito sul V-Day celebrato ieri a Mosca Un contributo eccezionale che RemoContro vorrebbe (spererebbe) diventasse sistematico, con peso della sua esperienza ad offrirci analisi e commenti. Per il momento, accontentiamoci di questo stralcio dal libro ‘Rossi a Manhattan‘.
Eric Salerno è nato New York nel 1939 e si è trasferito in Italia solo nel 1953. È stato per dieci anni redattore di ‘Paese Sera’, prima di passare a ‘Il Messaggero’, per il quale è stato a lungo inviato speciale in Africa e in Medio Oriente. Dal 1994 è corrispondente da Gerusalemme per il quotidiano romano e per la Radio della Svizzera italiana.
É anche un prolifico scrittore. Ha pubblicato, con la SugarCo, Guida al Sahara (1974), Fantasmi sul Nilo (1977) e Genocidio in Libia: le atrocità nascoste dell’avventura coloniale (1979). Tra i suoi lavori più recenti in veste di “cronista-scrittore” Rossi a Manhattan (Quiritta 2001) e Israele, la guerra dalla finestra (Editori Riuniti 2002).