
Si inizia nel 1911 con la breve guerra contro l’impero ottomano a cui prendiamo la Libia. Nel 1913 erano impegnati quasi centomila uomini. Poi fu la guerra mondiale. La Libia ritorna trincea italiana dal 1921 ad 31, con una escalation di violenze. Prima col governo Giolitti poi con Mussolini. La piena sovranità italiana sulla Libia fu segnata da momenti di estrema durezza, uso di gas letali, impiccagioni e deportazioni di oltre 100mila uomini imposte da Badoglio. Graziani fece del Paese un enorme ‘campo di concentramento’ con un reticolato di 270 km tra Libia e Egitto.
Ma oggi Giovanni Punzo ci offre un dettaglio in bilico tra ieri e oggi.
Il ‘Leone del deserto’ e il presunto erede
Tra le tante estrose stravaganze dello scomparso satrapo Muhammar Gheddafi forse la meno ricordata fu probabilmente l’unica per la quale al contrario esisteva fondato motivo per non considerarla tale. Ai distratti vale la pena ricordare che, quando il dittatore libico sbarcò teatralmente in Italia all’inizio della memorabile visita di riconciliazione nel giugno 2009, esponeva in bella vista sul petto carico di decorazioni anche una foto in bianco e nero: era la foto di Omar al-Muktar, eroe nazionale libico, processato e impiccato dagli italiani nel 1931 e del quale Gheddafi si era sempre dichiarato erede legittimo e continuatore. Perfino nel finale di quel mediocre film che fu «Il leone del deserto» fu inserito infatti un richiamo preciso alla continuità: il bambino che raccoglieva gli occhiali del ribelle sotto la forca era Gheddafi.
Omar al-Muktar era nato da una famiglia di contadini in Cirenaica intorno al 1860: dopo aver frequentato le scuole coraniche di Giarabub e Zanzur divenne un religioso conosciuto ed apprezzato per la conoscenza dei testi islamici. Imbracciò le armi contro gli italiani a partire dagli anni Venti -quando aveva già una sessantina d’anni- diventando in breve una figura leggendaria. La sua tattica consisteva in veloci e violenti attacchi contro posizioni italiane e in una rapida ritirata subito dopo. Per nutrire i propri uomini, con le stesse modalità, razziava invece bestiame e cibo dalle tribù sottomesse agli italiani o riceveva aiuti da altre tribù che non lo avevano fatto. Tra il 1926 e il 1927 utilizzò come base un’area impervia del Gebel dove le truppe italiane non potevano arrivare. Alla fine, stretto in una morsa, si spostò, ma sfuggire era diventato sempre più difficile.
Liquidare ora la questione come un ripetuto scontro di cavalieri al galoppo nel deserto è molto riduttivo e sbagliato, perché in Libia per circa un decennio (ufficialmente dal 1921 al 1931, ma in realtà anche prima) fu combattuta una durissima guerra coloniale nei modi e con gli strumenti tipici di questi conflitti. A parte i ribelli, che -se catturati- raramente erano risparmiati, a pagarne maggiormente le spese fu la popolazione civile, compresi donne e bambini. Dopo anni in cui si tentarono tutte le vie militari per sconfiggere le bande ribelli (aviazione, colonne motorizzate con blindati, aggressivi chimici, ma anche esecuzioni sommarie per migliaia di ribelli), alla fine la soluzione voluta dal generale Badoglio impose la deportazione di almeno centomila persone dalla zona della ribellione e il loro internamento in campi di concentramento.
Fu un autentico orrore. I beduini -dopo una marcia forzata nel deserto- furono ristretti in campi estesi circa un chilometro quadrato ognuno e circondati di filo spinato. All’interno le condizioni di vita furono estreme, soprattutto dal punto di vista igienico-sanitario: l’alimentazione scarsa e la diffusione incontrollabile di malattie come il tifo provocarono la morte di almeno quarantamila persone (ma secondo altre fonti molti di più). Alla fine di questa terrificante carneficina di inermi, non bastò la liberazione perché ne morirono altre migliaia per il prolungarsi della carestia: circa l’ottanta per cento delle pecore e dei cavalli della Cirenaica era morta e la situazione agricola disperata per il lungo abbandono. Dove l’agricoltura rimaneva florida era solo perché altri si erano insediati al loro posto.
Giovanni Punzo