Obama risorge e vola
sulle ali dell’economia
Basterà per il paradiso?

Certo nessuno si aspettava un discorso sullo stato dell’Unione come quello che Barack Obama ha pronunciato di fronte al Congresso. Molti commentatori lo davano già per morto (in senso metaforico, s’intende), o tutt’al più lo dipingevano come la classica “anatra zoppa” destinata a trascinarsi con fatica fino al termine del suo secondo mandato.

E invece il primo Presidente nero della storia americana è apparso letteralmente “risorto”. Facendo sfoggio dell’abilità oratoria che del resto tutti – amici e avversari – gli riconoscono, un Obama tonico e sicuro di sé ha mostrato una grande fiducia non solo nel suo operato, ma anche nel futuro degli Stati Uniti. Per nulla preoccupato dall’esito disastroso delle recenti elezioni, che hanno concesso ai repubblicani una solida maggioranza in entrambi i rami del parlamento, si è al contrario dichiarato disposto a combattere sino in fondo per far prevalere le sue idee, le quali com’è noto non piacciono all’opposizione conservatrice e neppure ad alcuni settori dello stesso partito democratico.

 

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Su quali elementi si fonda, quindi, la fiducia e la rinnovata autostima obamiana? Senza dubbio il propellente principale è costituito dai recenti successi economici che la sua amministrazione può vantare. Crescita del PIL, aumento dei consumi, notevole riduzione della disoccupazione, raggiungimento dell’indipendenza energetica. Fattore importantissimo, quest’ultimo, e che gli osservatori stranieri tendono stranamente a sottovalutare. Un’America che non deve più sottostare ai ricatti dei Paesi fornitori di petrolio è un’America più libera di muoversi senza condizionamenti nello scenario politico mondiale.

Circa la crescita delle tensioni razziali in molte zone degli Stati Uniti il Presidente non ha detto granché, ma ha affrontato il tema in modo indiretto ribadendo la necessità, da sempre presente nei suoi discorsi, di combattere con decisione le diseguaglianze economiche. Ammesso, si può però osservare, che siano proprio tali diseguaglianze a spiegare le esplosioni a sfondo razziale che hanno recentemente paralizzato New York e molte altre aree della nazione.

 

Era anche facile attendersi che alla politica estera venisse riservato un peso minore (una decina di minuti) nel discorso sullo stato dell’Unione. In primo luogo perché gli americani sono per tradizione più interessati alle questioni interne (e soprattutto a quelle economiche). In secondo luogo perché proprio la gestione della politica internazionale rappresenta per tutti il punto dolente dell’operato di Obama. E a tale proposito occorre rilevare che la fiducia da lui manifestata è apparsa eccessiva.

L’attuale Presidente sostiene di aver fermato, con la sua strategia, l’avanzata dell’Isis, ma non si capisce bene quali siano i motivi atti a giustificare tale affermazione. In realtà può vantarsi più per ciò che “non” ha fatto che per quel ha concluso. Occorre riconoscergli di aver resistito con fermezza alle sollecitazioni di Hillary Clinton (e di molti altri) che lo spingevano a un intervento in Siria contro Assad. Obama ha mostrato di aver capito che un simile intervento avrebbe con ogni probabilità causato gli stessi disastri di quelli contro Saddam Hussein e Gheddafi, per cui ha preferito non correre un rischio assai più reale che teorico.

 

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Per il resto occorre vedere come reagirà il Congresso al riavvicinamento a Teheran in funzione anti-Isis, con il nodo del nucleare iraniano ancora irrisolto. E se i parlamentari americani saranno disposti ad accettare i consigli di moderazione di Henry Kissinger a proposito della vicenda ucraina, altro caso in cui la politica estera USA sembra ancora quanto mai confusa.

Ma Obama dovrà pure assumere un atteggiamento più chiaro sull’espansionismo cinese nel Pacifico e il conseguente conflitto strisciante (ma in fase di surriscaldamento) tra la Cina da un lato e l’alleato giapponese dall’altro. Gli interessi americani in quell’area strategica sono così forti da non consentire un’indecisione prolungata. Tuttavia lì pesa il macigno dell’enorme quota di debito pubblico USA attualmente nelle mani di Pechino.

Insomma un quadro globale tutt’altro che confortante e difficilmente gestibile da un Presidente che, pur non dovendo più affrontare elezioni (come ha spiritosamente ribadito più volte nel discorso), è pur sempre prigioniero di una maggioranza congressuale che non lo ama affatto. Alla fiducia espressa a parole seguiranno successi nella pratica? Vedendo quanto è accaduto finora è lecito un certo pessimismo. Ma non si sa mai. A volte le resurrezioni avvengono proprio quando nessuno se le aspetta.

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