Se Kobane si salverà
saranno 2 gli sconfitti:
il Califfo ed Erdogan

Dunque la Turchia alla fine è costretta a cedere: farà passare milizie curde di rinforzo agli assediati di Kobane. Da quasi un mese nell’occhio del ciclone per non essere intervenuta militarmente di terra contro il Califfato e di avere chiuso il confine anche per gli aiuti di uomini e di armi agli assediati, alla fine di arrende. O forse sente che non sarà Isis a vincere a Kobane e non vuole finire tra gli sconfitti. Ma forse è già troppo tardi.

 

 

Che Ankara e Washington non si amino è noto. Parliamo delle attuali presidenze. Obama in visita di Stato ad Istanbul nel 2009 -ero reporter sul campo- non fu particolarmente espansivo con l’allora premier turco Erdogan che già stava sviluppando una spregiudicata ed espansiva politica di area. Gli albori del ‘Neo ottomanesimo’ di cui si parla apertamente oggi. Con un problema in più per gli Stati Uniti grandi protettori d’Israele: la rivisitazione in chiave islamica della amicizia politico-militare con Tel Aviv. L’algido Erdogan fu adeguatamente freddo con Obama. Antipatizzanti a occhio nudo. Già allora si capiva che la passione atlantica tra Turchia e Usa aveva subito il logorio del tempo. Poi fu la guerra in Siria e il rapporto andò proprio in crisi, con minacce di divorzio. Fu contro Assad che Turchia e Usa coltivarono amicizie pericolose sul fronte della identità islamista degli oppositori: Erdogan da vero credente, Obama da infedele in po’ sprovveduto. Il mancato attacco aereo Usa che doveva scattare con la frottola delle armi chimiche usate da Damasco, f sancì la rottura di fatto. Da allora è evidente che Washington e Ankara non condividono gli stessi obiettivi nella guerra contro l’integralismo islamico. E ora, a pagarne le conseguenze sul campo è il popolo curdo.

 

 

Kobane, l’eroica città curda in Siria,sembrava prossima alla capitolazione da molti giorni. E gli attacchi aerei della coalizione risultavano tardivi e insufficienti, mentre i diecimila uomini dell’ esercito turco che il Parlamento di Ankara aveva messo a disposizione del governo per fare la guerra a Isis, dal confine osservano senza muovere paglia. Curdi siriani il bersaglio jihadista sul campo, i curdi turchi il bersaglio politico di Erdogan. Vecchia massima storica del nemico del mio nemico che diventa amico. Meno curdi attorno per il neo presidente turco e datato stratega della nuova Turchia islamica e conservatrice. Il Pentagono, in ben altre faccende impelagato, già ci raccontava che la capitolazione di Kobane non sarebbe stato un dramma strategico. Ma la difesa di Kobane non risultava un banco di prova più evidente, popolare, clamorosamente pubblico per dimostrare la capacità di arginare il potere dei jihadisti sunniti? E quale era/è l’obiettivo vero della Turchia, che a parole dichiara la necessità di un intervento anti Califfato ma nei fatti assiste inerme alla sconfitta dei curdi asserragliati nella città al suo confine? Cinicamente, il presidente Erdogan, mantiene quel ruolo ambiguo che ha connotato la politica del governo turco degli ultimi mesi.

 

Attenti e quei tre sito

 

Ankara sempre meno laica e sempre più post ottomana, ha due problemi di fronte: il sempre temuto rafforzamento della forza militare dei curdi nell’area, mentre il suo obiettivo strategico finale non è la sconfitta del Califfato ma piuttosto quella del regime di Bashar al Assad. Meglio il Califfo di un Kurdistan vincente, sottintende neppure troppo velatamente Ankara, che ha a che fare con circa la metà dei 30 milioni di curdi che vivono le aree confinanti tra Iraq, Iran, Armenia e Siria. Uno Stato curdo è realtà già oggi in Iraq. Che il popolo curdo diventi il braccio armato e per giunta vincente della coalizione internazionale anti Califfato, alla Turchia proprio non va giù. Rospo impossibile da ingoiare e grande confusione strategica tra ‘alleati’ che si guardano da nemici. Interessi contrastanti anche in casa Nato, in questo caso, a spiegare in parte la fulminante ascesa dello Stato Islamico. E uno sprazzo di chiarezza, è venuta dal vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden. ‘Gaffe diplomatica’ nel dirci che anche la Turchia, oltre al Qatar e agli Emirati Arabi Uniti ha fornito “un esteso e incondizionato sostegno finanziario e logistico ai combattenti sunniti”, nel tentativo di spodestare dal governo siriano il presidente Bashar al Assad.

 

Sappiamo che il vicepresidente è una figura di secondo piano nella catena di comando del governo americano. Anche se è la persona che, in caso di morte o impedimento del presidente, ne prende il posto. Le sue parole vanno quindi pesate. Non a caso, Joe Biden si è dovuto scusare anche se ormai la frittata era fatta. Ben tre alleati della coalizione internazionale erano stati presi a schiaffi. Ma il punto è un altro. E cioè che Joe Biden ha ragione. La sua candida ammissione è l’unica parola chiara che abbiamo sentito sinora sull’ascesa dello Stato Islamico e sulla crisi mediorientale. Qatar, Arabia Saudita e Turchia hanno davvero finanziato la jihad islamica. I primi due Paesi con centinaia di milioni, la Turchia permettendo il passaggio dei volontari jihadisti verso Siria e Iraq. Colpe che questi tre Stati -va detto- condividono con gli Stati Uniti, responsabili a loro volta di aver creato e istruito generazioni di combattenti che poi si sono ribellati loro. Ed ecco il sospetto che la reticenza turca su Kobane -il non intervento- sia stato un modo crudo per saldare il conto aperto con gli Usa. Ma in queste ore a salvare Kobane e l’immagine dell’amministrazione Obama sono i Peshmerga. Combattenti curdi vincenti contro due nemici: Abu Bakr al-Baghdadi e Recep Tayyip Erdoğan.

 

Un villaggio alle porte di Kobane occupato da Isis viene bombardato

Un villaggio alle porte di Kobane occupato da Isis viene bombardato

Tags:
Condividi:
Altri Articoli
Remocontro