
I Balcani del lungo dominio ottomano che anche di quella cultura sono figli, piaccia o non piaccia ai singoli nazionalismi che qui sono arrivati poveri, senza avere avuto alle spalle un Rinascimento, un ‘Secolo dei lumi’ e una Rivoluzione francese. Eredità poco nobile di imperi dinastici multinazionali arrivati boccheggianti a chiudere l’800. I Balcani e Sarajevo in questo centenario dall’attentato che fornì la scusa per la prima guerra mondiale, ci vengono riproposti tra Bignamini storici, copia incolla da Wikipedia, e la reiterazione di bugie fatte diventare storia dal vincitore che se la scrive e se la canta. Per spirito di contraddizione, per ‘remare contro’ ho scelto di proporvi per l’occasione una fiaba. Una favola per capire lo spirito di Sarajevo, della Bosnia e dei Balcani. Di memoria ottomana in quelle terre restano soprattutto le leggende, eredità da ‘Mille e una notte’, dove in genere la notte che avanza alle mille diventa la notte fatale. Fiaba che mi è stata raccontata nella Sarajevo massacrata nell’assedio. La Sarajevo dei cecchini e della fame dove un padre sfida la morte cercando di tirar fuori dalle acque avare della Miljacka un po’ di cibo per sfamare i figli.
La narrazione, come accade in tutte le fiabe, può essere variamente decorata, semplificata o arricchita. Per questo racconto via web, un minimo di sintesi senza offendere la favola stessa. Decisamente amara come vedrete. L’uomo, il fiume, canna e lenza sotto il tiro dei cecchini. Per l’uomo che i cecchini stessi risparmiano per riguardo-superstizione che rende immuni i pazzi, una pesca quasi senza speranza. Quando, invece del temuto colpo dello snajper, sente uno strappo alla lenza, cibo che si dibatte da sottrarre al fiume. Quando la creatura guizzante arriva tra la mani del padre di famiglia disperato, la scoperta che quello è il famoso pesciolino d’oro delle fiabe. Il pesciolino d’oro della leggenda, quello che, come la lampada di Aladino, esaudisce ogni tuo desiderio. Il dialogo tra il pesciolino d’oro e Sujo -se preferite, Mujo, i due personaggi del barzellettiere jugoslavo- è a disponibilità di tempo e fantasia. Questo il succo. Pesciolino: “Se mi liberi ti darò ciò che vuoi”. Sujo: “Tre desideri?”. Pesciolino: “Uno solo, sei troppo sfigato”. Sujo deluso: “Vorrei… vorrei essere un principe, svegliarmi con la famiglia in una reggia splendida, ricco e servito”.
“Così sarà”, promette il pesciolino d’oro che guizza libero. Dopo di che Sujo, imbambolato e incerto teme di essere stato vittima di una allucinazione da fame. Sujo torna a casa mani vuote e neanche prova a raccontare alla moglie Sofja e ai figlioletti. E la notte che lo aspetta è quella di sempre, nella cantina fetida coi corpi di moglie e figli stretti tra di loro alla ricerca di calore, ma tormentata dalla quasi certezza di essere stato fregato dal pesciolino d’oro. Un sogno sulla scia di una stupida leggenda. Poi un po’ di sonno che fa da intervallo alla disperazione tra giorno e notte. Sia sogno o sia risveglio, Sujo ad un tratto coglie su di lui la morbidezza delle piume e la delicatezza di coltri di lino che profumano di pulito. Attorno a lui una stanza enorme e dal fondo le figure di paggi e damigelle che avanzano nelle lame di luce che filtrano da enormi finestroni. E portano vassoi colmi di cibi e bevande. Tutti preceduti da una dama bellissima con le fattezze della moglie, come la ricordava prima dei quattro anni di guerra e di miseria. Gli sfiora le labbra col bacio del risveglio, una carezza ed un sussurro :“Svegliati Ferdinando. Ci aspettano a Sarajevo”.
Trovo questo racconto geniale ed assieme terribilmente amaro. Mi fu fatto da qualche amico in qualche lunga notte nella Sarajevo assediata. Era la riscrittura -scoprii successivamente- di una fiaba in versi di Aleksandr Pushkin. Il pesciolino d’oro rivisitato a Sarajevo in chiave ancora più orientale. Una delle ‘Mille e una notte’ di eredità ottomana. Versione riadattata alla follia che la città e il suo popolo stavano vivendo in quel momento. Nella versione sarajevese del ‘Pesciolino d’oro’ c’è tutto lo spirito indomito di quella gente, il mix di culture e di popoli che era stata sino ad allora Sarajevo. Ed ho scoperto l’ironia pungente e amara coltivata nel calderone jugoslavo dove la vicinanza dal diverso, il ‘dissenso’ era consentito con la barzelletta o nella rivisitazione della fiaba. Grazie al ‘Pesciolino d’oro’ scoprii la Jugoslavia e me ne innamorai. La Sarajevo di allora, sia chiaro. E la fiaba di Pushkin mi fu raccontata -ora ricordo- grazie a quel matto di Mauro Maurizi che si era messo a filmare un matto vero che cercava di pescare nella Miljacka mentre attorno piovevano granate. Quando c’era ancora Mauro ed era possibile certo giornalismo. Favola.