
In viaggio a bordo di una mitica Ambassador nei profumi, nei colori e tra le genti del Rajasthan. Animati mercati, polverosi deserti, natura violenta, fortezze e imponenti palazzi del Maharaj. Ora convertiti in lussuosi alberghi per salvarli dal degrado del tempo.
Ha oltre 50 anni ma non li dimostra affatto. Candida e luccicante, con le sue curve tondeggianti l’Ambassador che ci aspetta è uno dei simboli inossidabili dell’India. Copiata dalla Morris inglese nel primo dopoguerra, è rimasta da allora praticamente inalterata. Ne ha molti meno Arban Singh che siede al volante, dhoti (stretti pantaloni) e achkan (lunga giacca senza collo) candidi, un pencha (turbante) coloratissimo, il cui lembo pende sulla schiena. Arban, pelle ambrata, sottili baffi neri che incorniciano un perenne sorriso, è un rajput, un “figlio di re”, discendente di quei leggendari guerrieri che si opposero alle invasioni mussulmane iniziate intorno all’anno mille. Da loro prende il nome il Rajasthan, stesse dimensioni dell’Italia per superficie e popolazione, una delle grandi attrazioni turistiche dell’India per i suoi monumenti, i suoi templi, i colori brillanti dei sari e lo scintillio degli ori e degli argenti che ornano i visi, le mani e le caviglie delle donne.
Se i nomi di Jaipur, la città rosa, Jaisalmer, la fortezza del deserto e Pushkar con il suo mercato dei cammelli sono nei sogni di ogni viaggiatore, Arban e la sua Ambassador ci accompagnano alla scoperta di località più inconsuete, tagliate fuori dai grossi flussi turistici, che conservano per questo un fascino intatto. Come l’area di Shekhawati, a ovest di Delhi e a nord di Jaipur, patria della gente di Marwar, il più esteso regno rajput, che aveva in Jodhpur la sua capitale. Qui, nel distretto di Jhunjhunun, soprattutto a Nawalgarh e Mandawa, sotto il regno dei Mughal i ricchi commercianti investirono parte del patrimonio nella decorazione dei loro palazzi. Gli haveli, i palazzi dei mercanti, pur nascosti da disordinati grovigli di fili elettrici e dalla polvere del vicino deserto del Thar, costituiscono un vero e proprio museo a cielo aperto. Tra le strade di terra di Nawalgarh ingombre di mercati, di vacche, dromedari e lampi di sari dai colori violenti spicca l’haveli del Dr. Ramnath A. Podar che ospita una scuola, ed è stato convertito in museo poiché meglio conservato degli altri. L’aneddoto più divertente è che il proprietario, che voleva a tutti i costi un treno dipinto sulle pareti della sua dimora, inviò l’artista, che mai ne aveva visto uno, per qualche giorno a Bombay perché si ispirasse e potesse riprodurlo.
Il Fort Chanwa Hotel a Luni
Costeggiando il deserto pietroso si passano le famose città di Bikaner, Jaisalmer e Jodhpur, capitale dell’antico stato di Marwar, la cui importanza è riflessa nel poderoso forte Meherangarh che la sovrasta. Pochi km a sud si trova Luni dove sorge un altro forte più modesto di colore rossiccio, un gioiellino di stanze mosse e arredate con gusto, trasformato parzialmente in hotel e ancora abitato dal Maharaj Rajveer Singh, 24ª discendente del capostipite Rao Jodh, fondatore e signore di Jodhpur. Intorno seguono alcuni villaggi Patel dove il nostro maharaj ci accompagna. Gli uomini indossano un caratteristico turbante bianco costituito da una striscia di stoffa lunga 9 metri, che ha diversi usi di emergenza, come riparare il viso da sabbia e polvere, filtrare acqua sporca, sostituire una corda per calare un secchio in un pozzo e così via. I Patel hanno anche altre specialità, come quella di fumare tabacco in un narghilè (chilum) e di bere tradizionalmente un tè di oppio che, pur essendo proibito, in piccole quantità è tollerato. Coltivato nel Rajasthan e nel vicino Madhya Pradesh, l’oppio, amarissimo, viene impastato con la melassa in cubetti neri, che vengono pestati in un piatto di legno, mischiati ad acqua e filtrati in una calza conica. La soluzione limpida viene distribuita nel palmo della mano dei partecipanti alla cerimonia disposti a cerchio. Non è che sia buonissima: sa un po’ di terra e un po’ d’erba.
Il maharaj si affretta a spiegare che è un medicinale, che il the non è allucinogeno, ma toglie la fatica e calma, come se i patel conducessero una vita stressante. Ancora più interessante la visita di un villaggio Bishnoi, una etnia che osserva una religione rigida composta da 29 regole, (Bishnoi letteralmente significa 29) che spaziano dal divieto di uccidere qualunque specie vivente, piante verdi incluse, a quello di sterilizzare i tori. Lo zelo è tale che prima di accendere un fuoco sono tenuti a controllare che i rami non siano rifugio di qualche insetto.
Donne Rajput sulla sabbia di Pushkar
Un altro divieto riguarda l’indossare abiti di colore blu, perché quel colorante comporta il prelievo di una grande quantità di germogli. La foresta di acacie e prosopis cineraria, che cresce presso il villaggio e resiste ai climi desertici perché affonda le radici profondissime nel suolo, ai Bishnoi fornisce foraggio e, una volta ogni qualche anno, un frutto che viene essiccato ed è ricercatissimo.
Spesso sotto questi alberi dal tronco sofferto e dalle foglie piccolissime, sono sistemati altari segnalati da bandiere. In un tempio Bishnoi non ci sono idoli, solo una lampada che brucia il ghee (burro purificato), nessun cerimoniale elaborato, solo preghiere a Vishnu. La dieta è ovviamente vegetariana: miglio, latte, burro, yogurt e basta; non producono formaggio e non mangiano uova. Abitano in capanne di terra pulite e ordinate, intonacate a calce e decorate con dipinti color arancio, che raffigurano treni, camion e cammelli.
Testi e foto: Federico Klausner /LATITUDESLIFE.COM © RIPRODUZIONE RISERVATA