PUNTO E A CAPO 1
L’Amleto Obama e la
stanchezza americana

Gli americani sono stanchi. Stanchi, in primo luogo, di combattere guerre che, iniziate con grandi squilli di tromba, si sono in seguito rivelate dei pantani enormi dai quali è difficile (o addirittura impossibile) uscire. Stanchi di inviare soldati in ogni parte del mondo senza poter più contare sull’illusorio paravento delle “guerre democratiche”. E stanchi, anche, di combattere per interposta persona, dopo aver – forse – capito che le truppe locali addestrate per sostenere le guerre al loro posto non combattono affatto. Si è visto in Irak, e temo che si vedrà molto presto in Afghanistan.

Stanco si dimostra pure l’attuale presidente, che non riesce trasmettere entusiasmo e sicurezza ai suoi concittadini. Barack Obama non ha perso la sua grande abilità oratoria, l’elemento di fondo sul quale ha costruito la sua fortuna politica. E tuttavia non è più il personaggio che incantò la folla in un memorabile discorso a Berlino, mentre il celebre slogan “yes, we can” è da tempo finito nella bacheca dei ricordi. S’è ingrigito perfino dal punto di vista fisico, pur mantenendo una “fitness” che i nostri politici neppure si sognano.

Si discute molto, in questo periodo, circa le responsabilità della situazione che si è venuta a creare. Parecchi si chiedono se la colpa sia davvero di Obama o piuttosto di chi l’ha preceduto (in particolare i due Bush). A me sembra una disputa oziosa.

 

Amleto Obama aereo sito

 

Senza dubbio il primo presidente nero della storia USA è entrato alla Casa Bianca con idee ben diverse da quelle dei suoi predecessori repubblicani. Era, e resta, un esponente dell’ala sinistra del partito democratico americano, in quanto tale schierato su posizioni opposte rispetto a Bush padre e Bush figlio.

A mio avviso, però, i due presidenti che l’hanno preceduto almeno avevano, in politica estera, una strategia ben delineata. Magari sbagliata, ma esisteva, e si erano scelti collaboratori adatti a metterla in pratica. Stesso discorso per Bill Clinton. L’opinione pubblica americana, dominata da un puritanesimo che va spesso sopra le righe, lo mise alla gogna per i suoi comportamenti privati. Ma nessuno si sognò di dire che aveva idee poco chiare circa il ruolo degli Stati Uniti nel mondo.

Con Obama siamo invece esattamente a questo punto. S’intuisce che la guerra in Afghanistan non gli piace, e che forse in Iraq avrebbe adottato una strategia diversa. Tuttavia non si comprende come intenda affrontare le crisi – sempre più numerose – che scoppiano nel mondo. Le sue continue oscillazioni circa il caso siriano sono note. Ha inoltre annunciato il ritiro delle truppe dall’Afghanistan con larghissimo anticipo mettendo nei guai il governo di Kabul e galvanizzando i Taliban, che si sentono ormai padroni del campo.

 

afghanistan soldato bimbo

 

Nell’attuale disastro irakeno, infine, ha dichiarato di voler difendere Baghdad, che non è affatto al sicuro, però senza impegnare direttamente le truppe. La solita storia, insomma. Vale a dire l’illusione di fermare gli islamisti utilizzando i droni e la potenza aerea. Strategia già fallita un sacco di volte ma, tant’è, le lezioni passate non sono servite a nulla.

Lecito chiedersi, allora, che cosa aspettano gli americani per riconoscere che non sempre abbattere un dittatore è un’azione virtuosa sul piano della politica estera. E di cosa hanno bisogno per ammettere che l’imposizione della democrazia liberale occidentale in contesti geopolitici non adatti a riceverla è foriera di sventure.

Oppure, per dirla in termini più schietti: che cosa si è guadagnato eliminando Saddam Hussein e Gheddafi? E davvero si pensa che abbattendo Assad la situazione migliorerebbe? A volte ho la sensazione che Obama, queste domande, se le ponga, e che le sue risposte siano simili a quelle che daremmo noi. Siamo però in presenza di un Amleto che nulla ha da invidiare al personaggio di Shakespeare. Ed è questo, per l’appunto, il vero guaio.

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