Il nuovo terrorismo
delle ‘Vedove Nere’

La somma di due lingue e di due culture a produrre anche linguisticamente il mostro. «Shahidki»: il plurale di shahidka, termine che lega il suffisso femminile russo alla parola araba shahid, «martire». Ecco le donne cecene che hanno compiuto gli attacchi suicidi che hanno segnato la fine del 2013 in Russia, nella città di Volgograd, l’antica e simbolica Stalingrado.

Dalle prime due giovanissime “vedove”, Khava Barayeva e Luiza Magomadova, che nel 2000 si fecero esplodere presso check-point russi ad oggi, la lista si è estesa, includendo fino a oltre 45 donne kamikaze, tra cecene e daghestane, che hanno preso parte alla violenta lotta per l’indipendenza dalla Russia delle ex Repubbliche sovietiche di popolazione islamica.

 

Una successione infinita di atti violenti a simbolici per una stessa causa. Ad esempio l’attentato di Boston dello scorso aprile perpetrato dai due fratelli ceceni. Poi le minacce di Doku Umarov, leader dell’“Emirato del Caucaso”, la milizia islamica nata dopo le due guerre di Cecenia che rivendica le terre sulle quali si disputeranno i Giochi olimpici di Sochi.

Sfida aperta e contenzioso chiaro, con l’orrore di far scoprire al mondo le donne disposte a compiere attacchi suicidi in nome del Jihad islamico. Clamoroso il tragico sequestro del teatro Dubrovka di Mosca del 2002 e la partecipazione alla strage di Beslan del 2004. Nel marzo 2010 due «Shahidki» si sono fatte esplodere nella metropolitana di Mosca, uccidendo 40 passeggeri.

 

Personalità forti e controverse narrano le biografie note di quelle donne. Tutte segnate dalla tragedia di aver perso mariti, figli e parenti nella prima guerra russo-cecena del ’94-’96. In realtà il triste primato di donne suicide va al Partito Nazionalista Socialista Siriano che nel 1985 impiegò la diciassettenne Sana’a Mehaydali contro un chek-point militare israeliano in Libano.

Perché l’utilizzo sistematico di terroriste negli ambienti militanti ceceni? I traumi subiti dalle donne suicide spiegano solo in parte. Molti ritengono che le ragioni tattiche e strategiche abbiano prevalso nell’organizzare questo tipo di resistenza al femminile: le donne destano meno sospetti, e il martirio al femminile ottiene maggiore risonanza mediatica ed effetto psicologico.

 

 

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