Brexit i conti in tasca: chi rischia, chi paga

«Il peggiore errore della nostra storia dal dopoguerra a oggi», piange lord Michael Heseltine, ex vicepremier ed ex ministro della Difesa conservatore, uno dei pochi Tories che hanno avuto il coraggio di opporsi alla Brexit. Altro che “Independence Day”, il giorno dell’indipendenza, sbandierato ieri dalla stampa euroscettica mentre la sterlinacontinuava il suo declino iniziato il 23 giugno, quando il Regno Unito votò per divorziare da Bruxelles.
Aveva ragione The Guardian col suo titolo, “Un salto nell’ignoto”. E Martin Wolf, autorevole commentatore del Financial Times, che sostiene, «Londra dipenderà ancora da Bruxelles, con la sola differenza che non potrà più influenzarne le scelte».
E la sterlina piange. Calo del 20 per cento circa negli ultimi nove mesi. Certo, buone esportazioni di “made in Britain”, ma ha alzato il costo delle materie prime, salire l’inflazione, frenato la spesa dei consumatori. Pessime cose.

Theresa, quasi a giustificarsi. «Abbiamo eseguito la volontà del popolo», dice la premier alla Camera dei Comuni. Che ha poi invocato «Una partnership con l’Europa, nuova, profonda, speciale», ma incassa alcuni sberleffi, costretta ad ammonire, «Rinunciare a difendere i valori europei sarebbe un errore costoso». E, tra gli ideali, tornano i conti in tasca.
La crescita si contrae e l’indebitamento sale, avverte il Sole24ore. «Quell’anno Londra doveva essere in surplus di bilancio e invece avrà scoperto di aver aumentato, in un quinquennio, il proprio debito di 122 miliardi di sterline non previsti nel marzo scorso. Di questi 58,7 (69,2 miliardi di euro) vanno sotto la voce Brexit. Il rapporto debito-Pil, inoltre, già nel 2018 supererà la soglia del 90 per cento».
Il cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond: nel 2017 il Pil britannico si fermerà a 1,4%, lo 0,8 meno di quanto preventivato e così proseguirà, con numeri variabili, almeno fino al 2020.

La favola dell’efficienza britannica. Sempre Hammond. «Non solo siamo meno produttivi di Usa e Germania del 30% – ha ribadito il responsabile del Tesoro – ma anche del 20% rispetto alla Francia e dell’8% rispetto all’Italia. Un lavoratore britannico impiega cinque giorni a fare quanto un tedesco realizza in meno di quattro». Si produce con fatica, ma i capitali finanziari ospitati in Gran Bretagna godono di ottima ed agevolata salute. Tasse. La corporate tax in uscita dalle Ue, calerà dal 20% di oggi al 17%, ma non sembra che possa andare più in giù.
Ma Londra ha già quel primato, ora minacciato da Donald Trump che punta, esplicitamente, al 15 per cento. Meno tasse per i super miliardari, è lo slogan che, detto da Trump, è comprensibile. E allora è ‘mercato’, dare avere. Ad esempio, la Nissan ha deciso di mantenere gli investimenti nel Regno Unito dopo un incontro top secret a Downing Street. L’economia dei saldi.

Chi piange, chi ride, e chi spera. Studio realizzato dal Tesoro britannico del giugno scorso, secondo il quale il Paese, con il no alla Ue, va verso «uno stato di povertà permanente». Crescita negativa tra i 20 e i 45 miliardi. Goldman Sachs ha ipotizzato una svalutazione delle sterlina tra il 15 e il 20%.
Il 50% dell’export della Gran Bretagna (valore complessivo 150 miliardi di sterline) è diretto al Vecchio Continente e, come ha fatto intendere il tedesco Wolfang Schäuble, Londra rischia di «uscire dal mercato unico europeo»: restrizioni a cose e persone, ripicche e dazi.
Dare avere, Ue, Gb. All’Europa la Gran Bretagna devolve poco più di 11 miliardi di euro, ma ottiene risorse per 7.
Cosa pagheremo noi. Morgan Stanley ha calcolato che senza il Regno Unito, primo partner commerciale della Ue, il Pil dell’Eurozona calerebbe già nel 2017 dell’1,5%, bruciando 150 miliardi di euro.
La sola Germania potrebbe perdere quasi 50 miliardi di euro l’anno.
Minore l’impatto per l’Italia: la Fondazione Bertelsmann ha calcolato un calo per il nostro Pil tra lo 0,06 e lo 0,23% sul fronte dell’interscambio (il nostro Paese ha un saldo commerciale di 12 miliardi di euro).

I prossimi passi della Brexit

Cosa accadrà adesso? La Bbc spiega che il Regno Unito ha due anni per negoziare un accordo, che deve essere approvato dalla maggioranza degli stati dell’Ue e dal parlamento europeo. Al tavolo delle trattative siedono il ministro britannico per l’uscita dall’Ue, David Davis, e Michel Barnier della Commissione europea.
Il 30 marzo Londra pubblicherà il libro bianco del progetto di legge chiamato Great repeal bill. Sarà abolito il codice del 1972 che aveva incorporato la legislazione europea nel diritto britannico e sarà convertito il corpus delle leggi europee in leggi nazionali.
Con circa 19mila leggi europee in vigore, al parlamento spetta una sfida legislativa enorme, e le conseguenze saranno incerte per la maggior parte dei settori dell’economia, secondo il Financial Times.
Per il Daily Telegraph, il Regno Unito ha adesso l’opportunità di sbarazzarsi di una burocrazia inutile e di condurre il paese su una strada radicalmente diversa. Il costo dei regolamenti europei è di 120 miliardi di sterline all’anno (139 miliardi di euro).

La prima ministra sta inviando “una lettera di suicidio”, osserva Polly Toynbee del Guardian, ricordando che “l’uscita dal mercato potrebbe costare al Regno Unito il 4 per cento del suo pil” oltre a delocalizzazioni e prezzi in aumento.
Secondo Toynbee i favorevoli alla Brexit hanno ingannato gli elettori promettendo che uscendo dall’Unione le cose sarebbero rimaste uguali e che “l’immigrazione sarebbe scesa a zero” perché non sarebbe più stata necessaria la manodopera straniera.
“May pagherà il prezzo delle promesse dei brexiters”, titola The Times, che prevede una “una guerra d’usura con Bruxelles”. Ma dal punto di vista politico, la vera battaglia si terrà nel Regno Unito, dove le trattative si annunciano altrettanto complicate. Le aspirazioni all’indipendenza della Scozia e dell’Irlanda del Nord sono solo le premesse.

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